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Quando ero giovane, le scarpe non erano mica tutte uguali come oggi. Avevano un’anima. Prima che arrivassero nei negozi di città, prodotte dalle macchine, le facevo io a mano. Le riparavo pure, stando a quello che imparavo da mio padre e che mio padre aveva imparato da mio nonno e via indietro. Mi chiamavano ol scarpolì e, di solito, avevo una minuscola bottega ricavata in un vecchio cortile, ol stal. Lì, sul bischetto, un tavolo basso e pieno di scomparti, tagliavo, cucivo, inchiodavo.

Ero circondato da forme di legno che usavo per le diverse misure del piede. Erano la mia bussola. Sì, perché ogni scarpa era un viaggio. A volte i bischetti erano due, allora il tavolo era più grande e gli scomparti più numerosi. Ma non tutti noi calzolai facevamo le scarpe. Alcuni si dedicavano solo agli zoccoli, che chiamavamo sòcol o spèi. Per farli usavano il legno di ontano che i contadini recuperavano dal bosco. I miei colleghi lo tagliavano e lo modellavano per fare la suola e poi ci attaccavano la toméra – in cuoio (cöràm) o in tela. Per le donne utilizzavano il velluto, più morbido e luminoso.

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La mia bottega era uno spazio semplice e pratico. Al centro c’era un tavolato di legno appoggiato su dei cavalletti. Lo potevo ribaltare, se ne avevo bisogno. Lì sopra ci cucivo le fodere. Usavo un ago ricurvo e prendevo le misure con il metro di legno. Ai muri, su una scaffalatura, mettevo in bella mostra le stoffe di vari colori e di varie qualità. Ce n’era per tutti i gusti. Accatastate negli angoli sporgevano file di sacchi di iuta pieni di fibre per imbottire i materassi.

Pe me l’attrezzo più importante era la cardatrice. Era un macchinario fatto da due tavole curve con denti di ferro. Passavo le fibre tra le tavole, avanti e indietro, avanti e indietro. In questo modo si districavano, si pettinavano e diventavano più morbide e soffici.

Le fibre erano di due tipi: di lana e di crine. La lana era per i ricchi e rendeva i materassi caldi e comodi. Il crine era roba per i poveri. Era ricavato dalla criniera e dalla coda dei cavalli e degli asini. Era duro, certo, ma veniva via a poco.

 

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La mia bottega era un luogo incantato. Il profumo del legno e della segatura si diffondeva nell’aria e invitava a entrare e a scoprire i segreti della mia arte. Al centro dominava un bancone bello grande, con tanto di pressa a mano per fissare il pezzo da foggiare. Intorno, c’erano una varietà di macchine e attrezzi per modellare il legno: torni a pedale, seghe manuali, a nastro e circolari, pialle, mole, alberi a trasmissione, rifilatrici. Più tardi sono arrivate le macchine combinate, che svolgevano fino a otto lavorazioni diverse. Sulla parete erano appesi gli strumenti che usavo di più: martelli, cacciaviti, tenaglie, scalpelli, trapani, sgorbie. Non potevano mica mancare le pialle per levigare il legno, e la cavra, indispensabile per costruire una marea di oggetti, tra cui gli zoccoli. Il legno non aveva segreti per me: sapevo come sceglierlo in base alle caratteristiche. Usavo quasi sempre le specie locali. Solo i ricchi chiedevano essenze esotiche per realizzare mobili di lusso o intarsi da mille e una notte.

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La fucina era il mio regno. Lì dentro mi sentivo come in una caverna piena di mistero. Il fuoco era sempre acceso, alimentato senza sosta dal carbone tenuto vivo da un mantice. Lì, arroventavo i pezzi di ferro da forgiare. Poi, con le pinze, i martelli e le mazzuole li lavoravo su un’incudine enorme, molto più grande di quella dei ramai.

I contadini si arrangiavano da soli a costruire gli attrezzi di legno che usavano. Ma il ferro era tutto un altro paio di maniche. Era un materiale difficile da maneggiare, che richiedeva abilità e forza. Per questo, quando si trattava di fare le parti metalliche di pale, badili, forche, zappe, picconi, falcetti, falci, erpici, rastrelli, aratri, venivano dal sottoscritto.

Realizzare i ferri per gli zoccoli degli animali da tiro si avvicinava al mio lavoro, ma era compito dal feracai. Un’attività che prevedeva una profonda conoscenza di cavalli, muli e asini, specialmente in caso di deformità dello zoccolo.

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In primavera, ogni famiglia contadina andava al mercato per comprare un lattonzolo, un maialino destinato a essere nutrito a base di avanzi e ospitato in uno stabbiolo all’interno della stalla. All’ingresso dello stabbiolo spiccava l’immagine di Sant’Antonio abate, il protettore degli animali domestici, che spesso era raffigurato con un maiale ai suoi piedi.

Con l’arrivo dell’inverno, entravo in scena io, il norcino. Ero esperto nell’arte della macellazione e della preparazione degli insaccati. Mi alzavo all’alba, prendevo attrezzi e spezie e mi presentavo nelle cascine dove i contadini avevano già bell’e pronta una caldaia d’acqua bollente. Una volta ucciso l’animale la versavo sulla cotenna del maiale per staccare le setole.

Dividevo la carne in due parti: una per i cotechini e una per i salami. La tritavo e la impastavo nel panarol, aggiungendo spezie, vino rosso, sale e aglio pestato. Legavo i salami, preparavo i cotechini, le salsicce e il lardo, che cospargevo di sale grosso e avvolgevo in un telo. Poi separavo piedini e codino da bollire, fegato, rognoni, trippa, ossi. Non buttavo via nulla. Proprio come dice il proverbio.

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Ero un artigiano che lavorava il cuoio per fare selle, finimenti, collari e altri oggetti per gli animali da lavoro. Il mio mestiere iniziava con la concia, un procedimento che trasformava la pelle cruda in un materiale resistente e duraturo. La concia richiedeva tempo e fatica e generava un odoraccio. Per questo motivo, già nelle città medievali, le concerie stavano ai margini del borgo. Le pelli venivano pulite e sottoposte a trattamenti per renderle morbide, impermeabili e con uno spessore uniforme. I tipi di concia cambiavano in base alle esigenze e ai materiali a disposizione. La più comune era la concia che utilizzava materiali di origine naturale, come l’allume.

Una volta conciato, il cuoio poteva essere tinto. La colorazione si effettuava immergendo la pelle in una mistura di radici o erbe. Per i finimenti e le selle degli animali da lavoro preferivo usare un cuoio più robusto, non colorato, che fosse resistente, ma non dannoso alla pelle. Rivestivo le parti a contatto con la pelle con una tela che assorbiva il sudore. Per i collari ricorrevo a imbottiture di fieno e ad assicelle in legno che ne conservavano la forma.

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Ai miei tempi, la gente non comprava l’abito, ma lo faceva fare a mano a me, il sarto. Il vestito su misura era un lusso riservato ai più abbienti, ma anche i più poveri passavano da me di tanto in tanto. Spesso, però, mi chiedevano di adattare un capo già usato. Si facevano rovesciare un vestito già utilizzato da genitori, nonni, fratelli e sorelle maggiori. Pochi di noi, come pure i camiciai e i magliai, si potevano permettere una vera bottega. In genere lavoravamo in una stanza di casa. Capitava talvolta di fare anche il barbiere.

Ma c’era chi faceva solo in barbiere, come me. Mi chiamavano così perché oltre ai capelli, tagliavo le barbe con rasoi dalla lunga lama, che affilavo su una striscia di cuoio duro chiamata coramella. La mia bottega lasciava un po’ a desiderare dal punto di vista igienico e prima di avere l’acqua corrente avevo una stufa per scaldare l’ambiente e l’acqua. Spesso quella sporca finiva buttata sulla strada davanti. In compenso, gli uomini venivano volentieri da me perché il tepore del locale sembrava scaldare anche la loro lingua che si scioglieva in chiacchiere e pettegolezzi. La mia bottega era un luogo solo per i maschi, però. La parrucchiera, infatti, lavorava a domicilio.

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Mi chiamavano ramaio, ma alcuni anche calderaio, perché non mi limitavo a forgiare il rame, ma anche le lamiere. Il rame era un metallo prezioso, più morbido del ferro e più facile da fondere. Lo usavo per le caldaie, i paioli, le pentole e le padelle. Le rivestivo di stagno all’interno per evitare che il rame, metallo tossico, entrasse in contatto con il cibo. Ogni tanto una pentola, in vena di nostalgia, tornava da me perché aveva bisogno di un nuovo rivestimento, rovinato dal tempo e dall’uso. Con il rame creavo anche suppellettili, vasellame e oggetti che andavano ad abbellire le case dei più danarosi. Alcuni erano meraviglie ottenute da stampi o da incisioni a sbalzo. Altri erano semplici lavori a freddo, realizzati su un foglio sottile di rame, modellato al tornio. Ma tutti avevano la mia firma, il mio tocco, il mio stile.

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